di seguito uno stralcio della pronuncia
(a cura di Giuliana Costanzo)
“Costituisce espressione di un consolidato orientamento interpretativo di questa Corte il principio secondo il quale l’utilizzo di denaro pubblico per finalità diverse da quelle previste integra il reato di abuso d’ufficio qualora l’atto di destinazione avvenga in violazione delle regole contabili, sebbene sia funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti e per i quali sia ammissibile un ordinativo di pagamento o l’adozione di un impegno di spesa da parte dell’ente; mentre, integra il più grave delitto di peculato l’atto di disposizione del denaro compiuto - in difetto di qualunque motivazione o documentazione, ovvero in presenza di una motivazione meramente “di copertura” formale - per finalità esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali dell’ente (…). Di tale principio di diritto la Corte di appello di Firenze ha solo in apparenza fatto corretta applicazione, nella parte in cui ha affermato che l’operazione compiuta dall’odierno ricorrente, consistita nel porre in liquidazione una serie di titoli appartenenti all’ente pubblico ... per poter effettuare il pagamento di quanto richiesto dalla ditta edile ... che aveva emesso una serie di fatture per lavori di manutenzione degli immobili pure di proprietà della medesima azienda pubblica, avesse integrato gli estremi del reato di peculato: ciò perché, si è detto, con riferimento a due di quelle fatture, il versamento era stato eseguito in relazione a lavori eseguiti per conto di una società, la ..., di cui pure il omissis era presidente (…) ovvero a lavori eseguiti sull’immobile di proprietà di omissis, figlia dell’imputato (…).
Tale impostazione argomentativa (…) avrebbe giustificato in astratto la fondatezza dell’addebito con riferimento al pagamento di quelle fatture, le uniche per le quali formalmente sarebbe stato ravvisabile il compimento di un atto di disposizione del denaro appartenente all’ente pubblico per finalità esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali dell’ente, avendo la stessa Corte di appello espressamente riconosciuto che tutte le altre fatture emesse dalla ditta ... riguardavano lavori di manutenzione eseguiti sugli immobili dell’ente ...: con la conseguenza che il denaro versato per il pagamento di tali ulteriori fatture doveva considerarsi utilizzato per la realizzazione di un interesse di rilevanza pubblica e che l’accertata violazione della disciplina amministrativa per la scelta della ditta appaltante, nonché la mancata osservanza delle norme di contabilità proprie di quell’ente pubblico, avrebbero al più astrattamente integrato gli estremi di un abuso di ufficio (la cui configurabilità andrebbe oggi verificata alla luce delle modifiche all’art. 323 cod. pen. apportate dall’art. 23 del recente decreto legge n. 76 del 2020, convertito nella legge n. 120 del 2020).
Tuttavia, la motivazione della sentenza impugnata risulta gravemente deficitaria, in quanto, omettendo di dare una adeguata risposta ai dubbi e alle perplessità formulate dalla difesa dell’imputato con l’atto di appello, la Corte fiorentina ha replicato con una ricostruzione della vicenda in parte contraddittoria e in parte generica.
Ed infatti (…) i giudici di merito hanno ammesso come fosse rimasto indimostrato se l’importo richiesto dalla ditta appaltatrice corrispondeva al valore delle opere concretamente realizzate, tenuto conto che le fatture emesse avevano tutte un contenuto generico.
Quanto poi all’affermazione, pure contenuta nella motivazione della sentenza gravata, al fatto che taluni dei lavori indicati in quelle fatture non erano stati eseguiti, va rilevato come tale indicazione sia rimasta meramente assertiva, non essendo stata sorretta dalla esposizione di concreti dati di conoscenza che avrebbero consentito di individuare quali e quante fossero le fatture emesse per lavori inesistenti. In un siffatto contesto argomentativo, caratterizzato da palese indeterminatezza, non è stato affatto chiarito rapporti esistessero tra la ... e la ..., indicata come proprietaria di uno degli immobili interessati dai lavori di manutenzione appaltati; né è stato spiegato quale rilevanza avesse avuto la relazione sentimentale che, all’epoca dei fatti, avrebbe legato il omissis ad una donna occupante uno degli immobili di proprietà dell’ente pubblico oggetto di quegli stessi lavori. La Corte di appello ha finito per concludere, in maniera apodittica, che “la condotta posta in essere dal omissis si (era) concretizzata di fatto un una vera e propria appropriazione indebita del denaro dell’ente a proprio vantaggio e a quello della ditta esecutrice dei lavori (...) soprattutto perché l’incarico alla ditta Giachi era stato conferito al di fuori della normativa fissata nel c.d. codice degli appalti e non era riferibile all’ente, stante l’assenza di qualsiasi deliberazione in tal senso”: dunque, sembrerebbe confermato che il reale addebito mosso all’imputato era quello di aver violato regole di amministrazione e di contabilità. È, perciò, necessario che a tali quesiti sia il giudice di rinvio a rispondere con una motivazione adeguata. (…)”.
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