(A cura di Pamela D'Oria)
Con l’ordinanza n. 50696 del 16.12.2019, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto sorto, in seno alle sezioni semplici, in ordine alla qualificazione giuridica di condotte violente finalizzate a soddisfare un diritto tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria1: esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p. o estorsione ex art. 629 c.p.?
In attesa dell’udienza, fissata per il 16 luglio p.v., proviamo ad analizzare i tre quesiti di diritto posti all’attenzione della Suprema Corte nella sua massima composizione.
«a) se i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione siano differenziabili sotto il profilo dell’elemento materiale ovvero dell’elemento psicologico».
L’individuazione del discrimen tra le due fattispecie criminose ha visto fronteggiarsi due macro-orientamenti che hanno, a loro volta, conosciuto delle divisioni interne.
Stando al primo, la differenza risiederebbe nell’elemento oggettivo del reato ed in particolare «nel livello di “gravità della violenza o della minaccia”»: il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni implica una stretta connessione tra la condotta violenta o minacciosa e la finalità di far valere il preteso diritto. Se la condotta sfociasse in manifestazioni violente sproporzionate e gratuite, andrebbe necessariamente inquadrata nel delitto di estorsione: la particolare gravità della violenza o della minaccia con cui si faccia valere la pretesa farebbe di questa una pretesa “ingiusta”, carattere rilevante ex art. 629 c.p.2. Orientamento la cui rivisitazione, tuttavia, è stata imposta dall’impossibilità di identificare, dal punto di vista normativo, la graduazione dell’intensità della violenza o della minaccia: ad essere valorizzato deve essere sì l’elemento oggettivo ma sotto il profilo dell’idoneità costrittiva dell’azione violenta contro la persona3. Ed invero, se in entrambi i delitti l’offesa viene realizzata mediante il ricorso alla violenza e/o alla minaccia, nel delitto di estorsione è richiesto un quid pluris: la violenza e/o la minaccia deve essere tale da costringere chi la subisce ad un facere o ad una omissione che procuri all’agente o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Secondo un altro orientamento, inaugurato nel 2013, invece, le due fattispecie si differenzierebbero con riferimento all’elemento psicologico: se con la condotta violenta e/o minacciosa l’agente vuole far valere un diritto per il quale non può farsi ricorso all’autorità giudiziaria (“ingiusto profitto”), essa va qualificata come estorsione; ove, invece, il fine perseguito sia quello di far valere da sé un diritto suscettibile di tutela giudiziaria, ad essere integrata è la fattispecie di cui all’art. 393 c.p.4. Tutto questo prescindendo dall’intensità o gravità della violenza e/o minaccia e, dunque, dall’efficacia costrittiva della condotta.
«b) in caso si ritenga che l’elemento che li differenzia debba essere rinvenuto in quello psicologico, se sia sufficiente accertare, ai fini della sussimibilità nell’uno o nell’altro reato, che la condotta sia caratterizzata da una particolare violenza o minaccia, ovvero se occorra accertare quale sia lo scopo perseguito dall’agente»
All’interno dell’orientamento che valorizza l’elemento psicologico come discrimen tra le due fattispecie, tuttavia, non è pacifica la necessità, ai fini della sussumibilità nell’uno o nell’altro reato, di accertare lo scopo perseguito dall’agente.
Si è, infatti, fatto strada un filone giurisprudenziale secondo cui l’elemento soggettivo deve essere vagliato «attraverso l’analisi delle modalità della condotta». In particolare, si sostiene che la prova del dolo debba essere desunta da elementi esterni che ne indicano l’esistenza, con la conseguenza che «le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’art. 393 c.p., ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile».
Non rileverebbe, dunque, il fine perseguito, bensì le modalità di realizzazione dell’azione.
«c) se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, debba essere qualificato come reato comune o di “mano propria” e, quindi, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile»
Il contesto e le modalità di realizzazione della condotta nel caso giunto dinanzi alla Seconda Sezione hanno riproposto il problema della qualificazione del reato di ragion fattasi come reato comune o reato proprio; ed in tale ultimo caso, il problema relativo alla possibilità di ammettere il concorso dell’extraneus.
I giudici remittenti evidenziano che la recente giurisprudenza di legittimità è pressoché granitica nel ricondurre il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, con violenza sia sulle cose sia alle persone, nel genus dei reati cc.dd. propri “esclusivi” o di mano propria: per la sua configurabilità, dunque, è necessario che il soggetto autore della condotta tipica coincida con il titolare del diritto di credito giudiziariamente tutelabile. Si tratta di una soluzione compiutamente elaborata dalla medesima sezione autrice dell’ordinanza in commento nella sentenza n. 46288 del 2016 sulla base di due elementi: uno letterale e l’altro sistematico. Con riferimento al primo, l’utilizzo dell’espressione “da sé medesimo” nell’art. 393 c.p. testimonierebbe la volontà del legislatore di circoscrivere la categoria del soggetto attivo ai soli titolari di una pretesa suscettibile di ricevere tutela dall’autorità giudiziaria. Per quanto concerne il secondo, la Cassazione afferma che «se può - in determinati casi (ovvero in difetto della presentazione della querela da parte del soggetto a ciò legittimato) - essere tollerato che chi ne ha diritto si faccia ragione "da sè medesimo", non può mai essere tollerata l'intromissione del terzo estraneo che si sostituisca allo Stato, esercitandone le inalienabili prerogative nell'amministrazione della giustizia».Dalla predetta qualificazione discende che solo laddove l’autore della azione tipica sia il titolare del preteso diritto, potrà aversi concorso nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni per quei soggetti che abbiano, con la propria condotta, agevolato, anche moralmente, la condotta tipica. Nel diverso caso in cui a porre in essere la condotta violenta e/o minacciosa sia un terzo estraneo alla pretesa, sebbene su mandato del creditore, ad essere integrata sarà una diversa fattispecie incriminatrice ovvero l’estorsione.
La posizione della sezione remittente
La Seconda Sezione, nel richiedere l’intervento delle Sezioni Unite, ha manifestato delle perplessità circa la qualificazione del reato di ragion fattasi come reato proprio esclusivo e la conseguente riduzione dell’ambito di operatività del concorso di persone. In particolare, ritiene che l’elemento letterale posto a fondamento della tesi sostenuta dalla sentenza n. 46288 del 2016 sia, in realtà, «controbilanciato dall’incipit dell’art. 393 cod. pen. che esordisce con “chiunque”, che indica che ci si trova al cospetto di un “reato comune”», mentre quello sistematico non appaia dirimente. Piuttosto, giunge ad affermare l’insussistenza di «ragioni “ontologiche”, correlate alla natura della condotta di esazione violenta del credito, che impediscono che l’azione materiale descritta dall’art. 393 cod. pen. sia posta in essere da terzi esecutori che agiscono per soddisfare le ragioni del mandante»
Considerazioni conclusive
Non sarà facile per le Sezioni Unite prendere posizione con riferimento alle tesi prospettate: tutte, infatti, presentano delle criticità.
Segnatamente, se si attribuisse rilevanza alla gravità della violenza o della minaccia quale elemento di differenziazione tra le due fattispecie criminose si rischierebbe di incorrere in una violazione del principio di legalità (art. 25 Cost.): si lascia, infatti, al giudice il compito di stabilire quando la violenza o la minaccia raggiungano una soglia di gravità tale da integrare il delitto di estorsione piuttosto che quello meno grave previsto e punito dall’art. 393 c.p.; valorizzare l’idoneità costrittiva dell’azione, invece, significherebbe affermare che sono escluse dall’ambito di applicazione dell’art. 393 c.p. - per rientrare in quello dell’art. 629 c.p. - quelle condotte violente e/o minacciose che siano dirette a soddisfare un diritto suscettibile di tutela giudiziaria mediante l’imposizione, al soggetto passivo, di un facere. La tesi che fa assurgere l’elemento soggettivo a discrimen ed in particolare quella che ne impone il vaglio attraverso l’analisi delle modalità della condotta, con la conseguenza che «alla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso potrà, peraltro, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione», non farebbe altro che riattribuire rilevanza decisiva al criterio dell’intensità della violenza o della minaccia, di cui si è denunciata l’incompatibilità rispetto al principio di legalità.
In ordine all’ammissibilità del concorso del terzo, bisognerà attendere per comprendere se le Sezioni Unite decideranno di valorizzare l’avverbio “chiunque” ovvero l’espressione “da sé medesimo”, entrambi riportati dall’art. 393 c.p. Ed invero, se il primo conduce alla qualificazione del reato de quo come reato comune suscettibile di essere commesso anche da chi non presenti particolari qualifiche naturalistiche o giuridiche, la seconda sembrerebbe deporre per una qualificazione come reato proprio.
Nel primo caso, la condotta violenta e/o minacciosa del terzo che dovesse agire su mandato del creditore integrerebbe comunque il reato di cui all’art. 393 c.p., mentre laddove le Sezioni Unite dovessero, in virtù della lettera della norma, attribuire al delitto di ragion fattasi la qualificazione di reato “di mano propria”, la medesima condotta del terzo non titolare del preteso diritto sarebbe da inquadrare nel delitto di estorsione i cui elementi, compreso quello dell’ingiusto profitto, devono, tuttavia, essere oggetto di accertamento.
1 La stessa Corte remittente restringe il campo di indagine: «essendo pacificamente inquadrate come estorsioni le condotte funzionali a soddisfare pretese sfornite di tutela».
2 In questo senso, da ultimo, Cass. pen. Sez. V, ud. 15.07.2019 – dep. 02.08.2019, n. 56400.
3 Cass. pen., Sez. II, ud. 04.07.2018 – dep. 31.07.2018, n. 36928.
4 Di recente, Cass. pen., Sez. II, ud. 22.03.2019 – dep. 24.06.2019, n. 27816.
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