Cass. Pen., sez. I, 6 marzo 2020, n. 9049.
(A cura di Giuliana Costanzo)
La vicenda giudiziaria sottesa alla pronuncia della Cassazione in commento origina dalla morte di un giovane, Marco Vannini, ferito, mentre si trovava a casa della fidanzata, da un colpo di pistola fatto esplodere dal padre di quest’ultima, Antonio Ciontoli, e poi deceduto anche in seguito alla tardività dei soccorsi.
La sentenza, che si segnala pure per gli interessanti spunti relativi alla configurabilità di un obbligo di protezione in capo ai familiari di Antonio Ciontoli e per la delimitazione del perimetro di applicazione del delitto di omissione di soccorso, si rivela particolarmente utile per le indicazioni relative all’utilizzo degli indici elaborati dalla giurisprudenza per la distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente oltre che per la sua capacità di evidenziare con chiarezza la problematicità e, talvolta anche, la volubilità degli accertamenti giudiziari volti alla definizione dell’elemento soggettivo dell’agente.
Nel caso di specie, se è certo che lo sparo che colpì la vittima provenne da Antonio Ciontoli, poche certezze, tuttavia, vi sono sia in merito alla qualificazione dell’elemento soggettivo con cui questo sparò sia di quello proprio dei suoi familiari, anch’essi protagonisti indiretti della tragica vicenda.
Così, se in primo grado Antonio Ciontoli fu condannato per il delitto di omicidio doloso (nello specifico, a titolo di dolo eventuale) ed i suoi familiari per concorso colposo nel suddetto reato, in secondo grado, i giudici della Corte d’assise d’appello di Roma confermarono la condanna dei familiari ma riformarono quella del Ciontoli, ritenendo che questo avesse agito con colpa aggravata dalla previsione dell’evento e non con dolo eventuale.
In particolare (ed in estrema sintesi), facendo applicazione (poi giudicata scorretta dalla Cassazione) dei criteri individuati dalla giurisprudenza di legittimità, i giudici di secondo grado sostennero, tra l’altro, che il fine che connotò la condotta del Ciontoli successivamente allo sparo fu quello di evitare conseguenze negative sul posto di lavoro: conseguenze che sarebbero state ben più gravi se la vittima fosse morta e che, quindi, secondo i giudici di seconde cure, dovevano far propendere, logicamente, per l’esclusione del fatto che il reo avesse potuto accettare l’evento morte come conseguenza – pur prevista – della propria condotta.
Tale conclusione non è condivisa dalla Cassazione, la quale, nel riprendere le indicazioni interpretative contenute nella sentenza Thyssenkrupp (Cass. Pen., SS.UU., sentenza n. 38343 del 2014), rammenta come le difficoltà concrete per l’interprete che si trovi a dover ricostruire su base indiziaria l’elemento psicologico che ha sorretto la condotta del reo siano appunto legate all’accertamento giudiziale di quello stesso elemento, «dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici».
A tal fine, i supremi giudici reputano manifestamente illogica l’argomentazione della Corte d’assise d’appello e ribaltano totalmente il ragionamento, rilevando un uso scorretto degli indicatori suggeriti dalla giurisprudenza – principalmente, di quello attinente alla finalità della condotta e di quello relativo alle conseguenze negative in caso di verificazione dell’evento – oltre che diverse carenze motivazionali. In particolare, la Suprema corte sostiene che sarebbe assai più logico ritenere che l’imputato abbia agito accettando l’evento morte della vittima (e, quindi, con dolo eventuale) perché è proprio grazie a questo evento che il Ciontoli avrebbe potuto evitare di incorrere in una maggiore responsabilità, avendo eliminato la principale fonte di prova dell’accaduto (la vittima) e rendendo quindi più disagevole l’accertamento della responsabilità. Altrettanto scorretto, d’altra parte, sarebbe stato l’utilizzo dell’indicatore del giudizio controfattuale basato sulla formula di Frank: nessuna consistenza logica avrebbe, infatti, l’argomento secondo cui se l’imputato avesse avuto certezza della verificazione dell’evento, si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita perché non valida è la premessa di tale ragionamento: che il Ciontoli voleva evitare che venisse accertato il fatto che egli avesse sparato. Né adeguatamente discusso dai giudici d’appello sarebbe stato l’argomento secondo cui il giudizio controfattuale della formula di Frank non sarebbe utilizzabile allorquando il fine perseguito dall’agente sia incompatibile con la verificazione dell’evento collaterale, seppur accettato: la Cassazione, infatti, chiarisce che anche quando ricorra tale ipotesi, non può comunque escludersi che l’agente abbia operato una consapevole opzione accettando la verificazione dell’evento: «Può infatti accadere che nell’agente prevalga la speranza, il desiderio di realizzare un certo risultato anche di fronte all’eventualità che proprio quella condotta renda definitivamente non realizzabile il risultato perseguito».
L’imputazione contestata ad Antonio Ciontoli deve essere, dunque, riesaminata così come oggetto di nuovo giudizio deve essere la statuizione relativa all’elemento soggettivo che avrebbe connotato la condotta dei familiari del primo.
Meno astratto, in questo senso, sembra il ragionamento proposto dalla Cassazione con riferimento a questi ultimi, rispetto ai quali l’opportunità di rivalutare il titolo di imputazione dell’evento pare trovare un appiglio più forte nel riferimento a comportamenti esteriori dei suddetti coimputati e nelle circostanze in cui si è verificato il fatto: dalla condotta tenuta dai soggetti, dalle loro testimonianze, dalla concatenazione concreta dei fatti, dalle circostanze oggettive verificatesi non può che sostenersi la manifesta illogicità dell’affermazione secondo cui questi agirono colposamente e, quindi, la necessità di spiegare con maggior rigore in che termini tali condotte concrete possano qualificarsi solamente come negligenti.
Per questi motivi la sentenza della Corte d’assise d’appello viene annullata e rinviata ad altra sezione della medesima Corte per un nuovo giudizio sull’elemento soggettivo di tutti gli imputati che presero parte all’omicidio di Marco Vannini.
La pronuncia, che, come detto, si caratterizza per fornire un contributo al dibattito relativo all’uso degli indici di distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, pare tuttavia restituire tutta la problematicità che caratterizza il tema. Il testo della sentenza, confrontato pure con quello della Corte d’assise d’appello (Corte di assise di appello di Roma, Sez. I, 1 marzo 2019, n. 3), offre inevitabilmente a chi legge una riflessione sulla possibilità di propendere in modo convincente ora per una ricostruzione dell’elemento soggettivo, adesso per quella contraria, in base al modo in cui vengano argomentati medesimi criteri. Così, la diversa forza dei ragionamenti adoperati, tutti basati su ricostruzioni indiziarie e presuntive di quello che sarebbe logico inferire riguardo all’atteggiamento psicologico del soggetto agente, resta esposta, a prima lettura, ad una certa precarietà la cui stabilizzazione pare dipendere principalmente dalla funzione nomofilattica svolta dalla Corte di cassazione e dall’esercizio di quei «talenti» richiesti dal rivestire il ruolo di giudice richiamati dalla stessa Corte nella sentenza Thyssenkrupp.
La parola, adesso, passa di nuovo ai giudici della Corte d’assise d’appello di Roma. Sarà logico ritenere che tutti gli imputati abbiano agito con dolo (eventuale)?
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