(Cass. civ., sez. VI-2, 20 luglio 2021, ord. n. 20706)
di seguito uno stralcio della pronuncia
(a cura di Beatrice Montagna)
“(…) In linea di principio la liquidazione dei debiti e crediti sorti dalla comunione avviene al momento della divisione. La liquidazione influisce sulla maniera e sulla misura del riparto (artt. 724 e 725 c.c.): chi è creditore degli altri finisce per avere di più rispetto alla sua quota, in modo da realizzare il credito in natura sui beni comuni, a scapito del comunista debitore, che prenderà di meno.
(…) (L’) applicazione del principio rende del tutto naturale e fisiologico che il debitore, assegnatario della cosa comune per intero, potrà pretendere che il conguaglio sia determinato tenuto conto di quanto dovutogli dagli altri per debiti dipendenti dalla comunione: tipicamente il debito per i frutti goduti dal singolo in eccedenza rispetto alla quota.
Nel caso di specie il comunista debitore ha ceduto la sua quota e l’atto è stato oggetto di revocatoria ex art. 2901 c.c. in favore del comunista creditore e contemporaneamente debitore del conguaglio.
(…) (A) seguito della divisione, i cessionari della quota del debitore non ricevevano beni in natura, ma solamente il conguaglio dovuto dal comunista creditore del loro dante causa. Se la pregressa obbligazione del cedente, dipendente dal rapporto di comunione, fosse rimasta inadempiuta, il creditore non avrebbe trovato nel patrimonio dei cessionari la quota immobiliare che in ipotesi avrebbe avuto il diritto di espropriare presso di loro ai sensi dell'art. 602 c.p.c..
Ciò imponeva, per non privare di efficacia la revocatoria, il trasferimento del vincolo sulle somme dovute dal medesimo creditore a conguaglio in favore dei cessionari. Una elementare esigenza di economia dei mezzi giuridici imponeva perciò di intendere la pronuncia di revoca della cessione per frode non in funzione della futura espropriazione presso il terzo, ma nella prospettiva del regolamento dei debiti dipendenti dalla comunione, secondo il sistema sopra descritto, che assicura al creditore la liquidazione del credito in natura già al momento della divisione. La revoca della cessione si traduceva allora, in favore del comunista creditore, nella possibilità di attuare la regolazione dei crediti dipendenti dalla comunione come se al posto dei cessionari ci fosse ancora il cedente. Era quindi opponibile ai cessionari, il cui acquisto era stato oggetto di revocatoria, il credito dell’assegnatario verso il cedente. L’assegnatario era perciò tenuto a versare ai cessionari il conguaglio ridotto e commisurato alla minor quota spettante al cedente in conseguenza dell’imputazione, nella quota di lui, del debito maturato per l’occupazione dell’immobile oggetto della divisione.
(…) “In relazione ai crediti sorti in dipendenza del rapporto di comunione (quale tipicamente il credito per il godimento esclusivo della cosa comune esercitato da uno solo dei comproprietari), poiché la legge (artt. 724 e 725 c.c.) consente ai compartecipi creditori il soddisfacimento del credito al momento della divisione, mediante prelevamenti in natura dai beni comuni, il comunista creditore, il quale abbia ottenuto la revoca per frode di un atto di disposizione della quota comune compiuto dal proprio debitore, può far valere il credito nel giudizio di divisione anche nei confronti dei cessionari, i quali debbono subire l’imputazione alla quota acquistata delle somme di cui era debitore il cedente in dipendenza del rapporto di comunione. Pertanto, il comunista che abbia vittoriosamente esperito l’azione revocatoria, al quale la cosa comune sia stata assegnata per intero in esito alla divisione, è tenuto a versare ai cessionari il conguaglio ridotto e commisurato alla minor quota spettante al cedente in conseguenza dell’imputazione del debito maturato per l’occupazione dell’immobile oggetto della stessa divisione”. (…)”
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