di seguito uno stralcio della pronuncia
(a cura di Ilaria Romano)
“Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
“Con ordinanza dell’11 giugno 2019, la Terza Sezione ha evidenziato l’esistenza di contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità - in relazione alla nozione giuridica della “coltivazione” di piante da cui siano ricavabili sostanze stupefacenti - da sottoporre al vaglio delle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen.
Nell’ordinanza di rimessione si pongono a confronto due differenti indirizzi delineatisi nella giurisprudenza di legittimità. In particolare si rileva che, secondo un primo indirizzo, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato (…). Secondo un diverso orientamento, ai fini della punibilità della coltivazione di stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente (…).
La Sezione remittente sollecita, dunque, le Sezioni Unite ad un intervento di nomofiliachia che definisca la nozione di offensività in concreto del reato di coltivazione non autorizzata di sostanze stupefacenti.”
“La questione di diritto, per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite, è la seguente: “Se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato”.
Si tratta di una questione che coinvolge l’estensione e l’ambito di applicazione del principio di offensività, in relazione alla fattispecie penale dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre, n. 309 (…).
Deve premettersi che la Corte Costituzionale, pur riconoscendo la valenza del principio di offensività in astratto (…) ha sempre ritenuto che l’individuazione delle condotte punibili, come pure la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, rientrino nella discrezionalità legislativa, ed ha adottato una linea di self-restraint, per cui la mancanza di offensività è ritenuta censurabile solo nella misura in cui le scelte normative configgano in modo manifesto con il canone della ragionevolezza; in tale quadro, spetta al giudice comune la valutazione sulla sussistenza dell’offensività in concreto.”
“Negli ultimi anni la giurisprudenza si è ancora divisa sulla declinazione del concetto di “offensività in concreto”, essenzialmente intorno ai due differenti filoni interpretativi richiamati nell’ordinanza di rimessione, che condividono il solo ovvio presupposto della conformità al tipo botanico vietato della pianta da cui siano estraibili sostanze stupefacenti.”
“Il primo degli indirizzi in questione ritiene irrilevante la verifica dell’efficacia drogante delle sostanze ricavabili dalle colture con riferimento all’atto dell’accertamento della polizia giudiziaria e si incentra sull’attitudine della pianta, conforme al tipo botanico vietato, anche in relazione alle modalità che connotano la coltivazione, a giungere a maturazione e produrre, all’esito di un fisiologico sviluppo, sostanze ad effetto stupefacente o psicotropo, sulla base, dunque, di un giudizio predittivo”.
“(…) all’indirizzo sopra descritto se ne contrappone un altro, che non ritiene sufficiente la verifica della conformità della pianta coltivata al tipo botanico proibito e della capacità della sostanza, ricavata o ricavabile, a produrre un effetto drogante, ma richiede un quid pluris, rappresentato dal concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso.”
“Così delineato l’oggetto della questione, deve essere richiamata e ribadita - quale punto di partenza di ogni riflessione - la distinzione (…) tra le categorie della tipicità e dell’offensività del reato e, nell’ambito di quest’ultima, tra offensività in astratto e offensività in concreto”.
“È da ricondurre al piano della tipicità, intesa come riconducibilità della fattispecie concreta al “tipo” disciplinato dalla fattispecie astratta, il duplice requisito della conformità della pianta al tipo botanico vietato e della sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente.
“Altro profilo attinente alla tipicità del fatto è quello dell’ambito di applicazione della (…) distinzione tra “coltivazione imprenditoriale” e “coltivazione domestica.”
“(…) la coltivazione non può essere ritenuta una sottospecie della detenzione, come tale punibile solo in quanto vi sia stata effettiva produzione di sostanza dotata di efficacia drogante, perché una tale interpretazione (…), oltre a scontrarsi con il tenore letterale di una pluralità di disposizioni normative, si pone in rotta di collisione con la chiara scelta del legislatore di punire ogni forma di produzione di stupefacenti, se necessario, anticipando la tutela al momento in cui si manifesta un pericolo ragionevolmente presunto per la salute.”
“Ferma restando la sua autonomia concettuale, la nozione giuridica di coltivazione deve, però, essere circoscritta, per dare spazio alla distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”. (…)
Deve essere dato rilievo, a tal fine, all’art. 27 del d.P.R. n. 309 del 1990, il quale, ai fini dell’autorizzazione alla coltivazione, fa riferimento anche alle “particelle catastali” e alla “superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione” (…). D’altra parte, (…) la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti (…). La prevedibilità della potenziale produttività è, quindi, uno dei parametri che permettono di distinguere fra la coltivazione penalmente rilevante (…) e la coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttività prevedibile come modestissima. Si tratta, però, di un parametro che, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti oggettivi (…) - che devono essere tutti compresenti, quali: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentali delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti, l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore.”
“Venendo al versante dell’offensività dell’attività di coltivazione (…) ritengono (…) le Sezioni Unite che l’esclusione della punibilità delle attività coltivazione domestica (…) renda a fortiori condivisibili le considerazioni svolte dalla giurisprudenza maggioritaria circa la più spiccata pericolosità della coltivazione rispetto alla maggior parte delle altre condotte elencate nell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (…) - perché l’attività di coltivazione è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili.
La riconosciuta anticipazione di tutela consente anche di risolvere la questione se l’oggettività giuridica del reato debba essere individuata solo nella salute individuale o collettiva (…) o anche: nella sicurezza, nell’ordine pubblico, nella salvaguardia delle giovani generazioni (…), nell’impedimento dell’incremento del mercato degli stupefacenti (…).
Al fine di individuare l’oggetto giuridico della tutela, è sufficiente, dunque, riferirsi alla salute, individuale e collettiva, proprio perché la particolare pregnanza di tale valore costituzionale consente che la sua protezione sia anticipata ad un momento precedente a quello dell’effettiva lesione.”
“La ricostruzione sistematica del reato di coltivazione di stupefacenti, in termini di pericolo presunto, trova adeguato temperamento nella valorizzazione dell’offensività “in concreto”, quale criterio interpretativo affidato al giudice, il quale è tenuto a verificare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato. (…)
“In conclusione, le Sezioni Unite ritengono che la soluzione da dare alla questione sollevata con l’ordinanza di rimessione debba basarsi sull’affermazione della mancanza di tipicità (…) della condotta di coltivazione domestica destinata all’autoconsumo, condotta in relazione alla quale non potrà trovare applicazione l’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, perché tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione, neanche a quella penalmente rilevante. Qualora, però, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell’art. 75 richiamato potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinato a uso personale. In presenza di una coltivazione penalmente rilevante, invece, la detenzione da parte del coltivatore dello stupefacente prodotto dovrà essere ritenuta assorbita nella coltivazione (…).
Vi è, dunque, una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni: a) devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo - alle condizioni sopra elencate - per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all’esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto; b) la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990; c) alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l’art. 131-bis cod. pen., qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, l’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto.”
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